IL RITORNO DEGLI EUROBOND
di Gianpiero Magnani

Talvolta ritornano: l’idea di emettere titoli di debito pubblico europeo per intervenire sulla “economia della immigrazione”, a monte nei paesi di origine e a valle, dentro l’Unione, è una buona idea, e fa piacere che a suggerirla siano gli italiani (che viceversa hanno agito poco e male nell’elaborazione di altre normative europee, dal Fiscal Compact al bail in). Ciò che si continua a dimenticare, nonostante i reiterati appelli (l’ultimo che ricordo era dei socialisti europei, nel luglio 2011) è che gli Eurobond dovrebbero esistere indipendentemente dallo scopo, dovrebbero essere introdotti semplicemente perché esiste una Eurozona che ha una moneta in comune, l’euro. In pratica, se c’è una sola moneta europea, deve necessariamente esserci un solo debito pubblico europeo: euro ed eurobond non possono essere disgiunti, altrimenti il progetto economico europeo rischia di rivelarsi un castello di carte, a costante rischio di crollo con conseguenze disastrose per tutti, dentro e fuori l’Eurozona.
L’esistenza di tanti debiti pubblici nazionali, denominati in euro, senza una politica fiscale comune e con una Banca Centrale cui è ancora proibito l’acquisto di tali titoli sul mercato primario, è una contraddizione in termini. Come dimostra la storia, a partire dalle stesse vicende italiane di un secolo e mezzo fa: anche l’Italia, all’inizio della propria esperienza unitaria, si trovò a dover affrontare un problema analogo, come osserva Antonio Maria Rinaldi nel libro “Europa Kaputt”; scrive Rinaldi: “proprio l’Italia fornisce un esempio formidabile di unione monetaria effettiva avvenuta ai tempi della sua costruzione unitaria nel 1861, quando gli Stati preunitari, a cui si aggiunse presto lo Stato Pontificio, furono chiamati a condividere la stessa moneta e soprattutto i propri debiti pubblici”.
L’aspetto curioso è che la ricerca storica più importante su questi eventi non è stata compiuta da un italiano, come sarebbe ovvio aspettarsi, ma dalla francese Stephanie Collet, che ha ricostruito la storia dei debiti degli stati preunitari italiani e come questi furono unificati nell’unico debito pubblico nazionale. Scrive ancora Rinaldi: “tutti i vari debiti continuarono a essere quotati con la loro indicazione di origine fino alla scadenza annuale, naturalmente denominati in lire, ma apponendo semplicemente il suffisso iniziale di ‘Italy’ a garanzia che i titoli erano sotto la garanzia di un unico nuovo Stato. (…) Questa situazione durò fino al 1870, quando avvenne l’annessione e il trasferimento a Roma della Capitale e gli investitori si convinsero che finalmente l’Italia fosse realmente divenuto un vero Stato sovrano e non più una espressione geografica come ebbe a dire il Metternich, consentendole di emettere nuovi titoli di debito a tassi sempre più vantaggiosi”.
Se la storia è maestra di vista, la ricerca di Stephanie Collet andrebbe divulgata e fatta conoscere in particolare all’establishment europeo, perché proprio l’unificazione dell’Italia ha fornito la dimostrazione di come sia possibile pervenire a soluzioni razionali anche sul lato economico, quando in gioco vi sono fondamentali interessi collettivi. Lo slogan è, o dovrebbe essere, “una moneta, un debito”, se l’Europa non vuole essere una mera espressione geografica, un insieme anarchico di forze e di problemi, ma al contrario una grande opportunità politica ed economica per i suoi cittadini e per il mondo intero.
Approfondimenti:
– Antonio Maria Rinaldi, EUROPA KAPUTT, Piscopo Editore 2013, pagg.65 e seguenti
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